17.4.06

Guerre, malaffare e religione

di Andrea Di Paola

Vi invito ad una riflessione sul nesso tra guerre, malaffare e religioni facendo appello alla Vostra onestà intellettuale, allo spirito di ricerca ed al sincero impegno per la Pace, la Cultura e la Prosperità per tutti gli esseri umani.

Partiamo da una premessa: converrete che il valore di qualsiasi religione debba essere misurato dalla capacità di renderne felici i seguaci e di consentire una pacifica e felice convivenza per tutti.

Le tre principali religioni monoteistiche hanno da sempre fallito questo obbiettivo: basti pensare a ciò che è accaduto e accade tuttora a Gerusalemme dal tempo delle crociate all’intifada odierna, in Jugoslavia recentemente, in Medio Oriente e in America per lo scontro tra teocons americani e terroristi islamici ed in moltissime altre occasioni da secoli e per secoli.

Qualche altro esempio: la maggior parte dei mafiosi e dei camorristi sono ferventi cattolici osservanti, molti politici corrotti altrettanto, alcuni imprenditori da sempre definiti dei buoni cattolici hanno dilapidato le fortune di centinaia di migliaia di risparmiatori, diversi appartenenti all’Opus Dei si distinguono e senz’altro si aggregano spinti perlopiù da avidità e opportunismo e potremmo citarne un infinità.


Tutto ciò si riscontra anche nelle altre religioni monoteistiche ed ovviamente esistono delle eccezioni, ma nella maggior parte dei casi chi è dominato dal mondo (scheda sottostante) dell’animalità, della collera o dell’avidità resta tale e lo stesso si può dire di chi, per nostra e loro fortuna, è dominato dai mondi più alti, come il mondo di studio, il mondo della compassione (“bodhisattva”) come hanno ben dimostrato Madre Teresa di Calcutta e tantissime altre persone.

Perche?

Proverò a spiegarlo: le religioni monoteistiche maggiormente diffuse, nonostante le ottime intenzioni, non sono assolutamente in grado di cambiare il cuore della stragrande maggioranza dei loro seguaci.

Non ha senso, perciò, distinguere tra buoni e cattivi cattolici, buoni e cattivi musulmani, buoni e cattivi ebrei, perché tutti gli esseri umani sono dotati dei dieci mondi e in assenza dello strumento appropriato assai difficilmente potranno fare la rivoluzione umana.

Il buddismo di Nichiren Daishonin è una religione antropocentrica che consente realmente a chiunque intenda praticarlo correttamente – fede, pratica e studio - di realizzare la propria rivoluzione umana, ovvero di cambiare positivamente il proprio cuore e di illuminare i mondi bassi e, cosa fondamentale per la propria felicità, di armonizzarsi spontaneamente alla Legge di causa ed effetto che disciplina l’universo e con ciò costituisce la risposta migliore, fino a prova contraria, all’esigenza di Pace e di felicità per tutto il genere umano fornendo, oltre alla prova teorica e documentale, la prova concreta della sua efficacia.

Per approfondire: “Il Budda nello specchio” Ed. Esperia; “I dieci mondi” Ed. Esperia; “I misteri di nascita e morte” Ed. Esperia.


Con i migliori saluti e auguri,
Andrea Di Paola

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I dieci mondi e il mutuo possesso dei dieci mondi

Il concetto, noto come “i dieci mondi”, rappresenta uno dei modi in cui il Buddismo spiega la vita. Sono i dieci stati o condizioni vitali che si manifestano in tutti gli aspetti dell’esistenza. Ognuno li possiede potenzialmente tutti e dieci, e in ogni momento passiamo dall’uno all’altro. Questo vuol dire che in ogni momento uno dei dieci mondi viene manifestato, mentre gli altri nove rimangono latenti. Partendo dal più basso al più alto, essi sono:

Inferno. È la condizione di sofferenza e disperazione in cui abbiamo la percezione di non essere liberi di agire; è caratterizzata dall’impulso di distruggere noi stessi e tutto ciò che ci circonda.

Avidità. L’avidità è la condizione in cui ci sentiamo dominati da un insaziabile e incontrollabile desiderio di denaro, potere, posizione sociale o di qualunque altra cosa.

Animalità. In questo stato, siamo governati dall’istinto. Non abbiamo freni né la capacità di elaborare pensieri a lunga scadenza. Nel mondo dell’Animalità, si agisce secondo la legge della giungla, per così dire: senza esitare ad approfittare di quelli più deboli di noi e ad adulare quelli più forti.

Collera. In questo stato emerge la consapevolezza dell’io, ma è un io egoista, avido, stravolto, determinato a superare gli altri a tutti i costi e a considerare tutto come una potenziale minaccia per se stesso. In questo stato si tende a dare valore solo a noi stessi e tendiamo a disprezzare gli altri. Siamo fortemente attaccati all’idea della nostra stessa superiorità e non si ammette che qualcuno ci superi in qualcosa.

Umanità (definita anche Tranquillità). È una condizione vitale piatta dalla quale si scivola con facilità negli altri quattro mondi più bassi. Se in genere in questo stato ci comportiamo in modo umano, rimaniamo estremamente vulnerabili alle forti influenze esterne.

Paradiso (o Estasi). Questo è uno stato di gioia intensa derivante ad esempio dalla realizzazione di un desiderio, da una sensazione di benessere fisico, o da una intima soddisfazione. Anche se intensa, la gioia sperimentata in questo stato ha vita breve ed è anche vulnerabile alle influenze esterne.

I sei stati che vanno dall’Inferno al Paradiso sono definiti i sei sentieri o i sei mondi inferiori. Hanno in comune il fatto che la loro comparsa o scomparsa è legata alle circostanze esterne. Prendiamo il caso di un uomo ossessionato dal desiderio di trovare qualcuno che lo ami (Avidità). Quando alla fine incontra davvero questa persona, si sente in estasi e realizzato (Paradiso). Con il passare del tempo, compaiono sulla scena dei rivali e lui è attanagliato dalla gelosia (Collera). Alla fine il suo senso del possesso allontana da lui la persona amata. Distrutto dalla disperazione (Inferno), sente che la vita ha perso ogni valore. In questo caso, per qualche tempo si passa da uno all’altro di questi sei sentieri senza neanche rendersi conto di essere dominati dalle proprie reazioni all’ambiente. Qualunque felicità o soddisfazione ottenuta in questi stati dipende totalmente dalle circostanze ed è quindi effimera e soggetta al mutamento.

In questi sei mondi inferiori, noi basiamo la nostra intera felicità, e quindi la nostra stessa identità, su elementi esterni.
I due stati successivi, Studio e Illuminazione Parziale, emergono quando ci rendiamo conto che tutto ciò che sperimentiamo nei sei sentieri è fugace, e iniziamo a cercare una verità duratura. Questi due stati, più i due successivi, Bodhisattva e Buddità, complessivamente vengono definiti i quattro mondi nobili. A differenza dei sei sentieri, che sono reazioni passive all’ambiente, questi quattro stati più elevati vengono ottenuti attraverso uno sforzo intenzionale.

Studio. In questo stato, cerchiamo la verità attraverso gli insegnamenti o le esperienze degli altri.

Illuminazione Parziale o Realizzazione. Questo stato è simile allo Studio, tranne per il fatto che cerchiamo la verità non attraverso gli insegnamenti di altri, ma attraverso la nostra stessa percezione diretta del mondo.
Studio e Illuminazione Parziale sono chiamati i “due veicoli”. Avendo compreso la fugacità delle cose, le persone in questi stati hanno conquistato un livello di indipendenza e non sono più prigionieri delle proprie reazioni, come invece nei sei sentieri. Spesso, però, tendono a sentirsi superiori alle persone legate ai sei sentieri che non hanno ancora raggiunto questo livello di comprensione. In più, la loro ricerca della verità è principalmente orientata verso se stessi, quindi c’è un grande potenziale di egoismo in questi due stati, e le persone possono raggiungere una soddisfazione con i loro progressi senza scoprire il potenziale più alto della vita umana nel nono e decimo mondo.

Bodhisattva. I Bodhisattva sono coloro che aspirano a ottenere l’illuminazione e nello stesso tempo sono altrettanto determinate a mettere tutti gli altri esseri in grado di fare la stessa cosa. Consapevoli dei legami che ci uniscono a tutti gli altri, in questo stato ci rendiamo conto che qualunque felicità proviamo da soli è incompleta, e ci dedichiamo ad alleviare le sofferenze degli altri. Chi si trova in questo stato trova la maggiore soddisfazione in un comportamento altruistico.
Gli stati dall’Inferno al Bodhisattva sono complessivamente chiamati “i nove mondi”. Questa espressione viene spesso usata in contrapposizione al decimo mondo, lo stato illuminato di Buddità.

Buddità. La Buddità è uno stato dinamico difficile da descrivere. Possiamo parzialmente descriverlo come uno stato di libertà perfetta, in cui siamo illuminati alla verità ultima della vita. È caratterizzato da una compassione infinita e da una saggezza sconfinata. In questo stato, possiamo trasformare armoniosamente ciò che dal punto di vista dei nove mondi appare come una contraddizione insolubile. Un sutra buddista descrive gli attributi della vita del Budda: un vero io, una libertà perfetta dai legami karmici per tutta l’eternità, una vita purificata dall’illusione, e una felicità assoluta. Inoltre, la condizione di Buddità viene fisicamente espresso nella Via del Bodhisattva o azioni di un Bodhisattva.


Cos'è il mutuo possesso dei dieci mondi?

I dieci mondi originariamente erano immaginati come regni fisicamente distinti, in cui gli esseri umani nascevano a seconda del risultato derivante dal karma accumulato. Ad esempio, gli esseri umani nascevano nel mondo dell’Umanità, gli animali nel mondo dell’Animalità e gli dei nel mondo del Paradiso. Nel Buddismo di Nichiren Daishonin, i dieci mondi sono invece considerati condizioni vitali che tutte le persone potenzialmente possono sperimentare. In qualunque momento, uno dei dieci mondi si manifesterà e gli altri nove saranno latenti, ma costante rimane la potenziale possibilità di un cambiamento.

Questo principio viene espresso anche come mutuo possesso dei dieci mondi, secondo cui ognuno dei dieci mondi possiede in sé tutti gli altri. Ad esempio, una persona che si trova nella condizione di Inferno può, un attimo dopo, rimanere all’Inferno oppure manifestare uno qualunque degli altri stati. L’implicazione fondamentale di questo principio è che tutte le persone, in qualunque condizione vitale si trovino, hanno il costante potenziale di manifestare la Buddità. E' altrettanto importante il fatto che la Buddità si trova nella realtà delle nostre vite negli altri nove mondi, non in qualche luogo a sé stante.

Nel corso della giornata, sperimentiamo diversi stati di momento in momento, secondo la nostra interazione con l’ambiente. La vista della sofferenza altrui può richiamare il mondo compassionevole del Bodhisattva, e la perdita di una persona cara può ricacciarci nell’Inferno. Ad ogni modo, tutti noi abbiamo uno o più mondi intorno ai quali di solito ruotano le nostre attività e alle quali tendiamo a tornare quando gli stimoli esterni si placano. Si tratta della tendenza vitale di base di ognuno, e ognuno l’ha stabilita attraverso le proprie azioni precedenti. Le vite di alcuni ruotano intorno ai tre sentieri cattivi, alcuni oscillano nei sei mondi inferiori, e altri sono principalmente motivati dal desiderio di cercare la verità che caratterizza i due veicoli. Lo scopo della pratica buddista è quello di elevare la tendenza vitale di base e alla fine stabilire la Buddità come condizione di base di ognuno.

Stabilizzare la Buddità come nostra condizione di base non significa liberarsi degli altri nove mondi. Tutti questi stati sono aspetti integranti e necessari della vita. Senza sperimentare le sofferenze dell’Inferno, non potremmo mai provare una sincera compassione per gli altri. Senza i desideri istintivi rappresentati da Avidità e Animalità, dimenticheremmo di mangiare, dormire e riprodurci, arrivando ben presto all’estinzione. Anche se realizziamo la Buddità come nostra tendenza vitale di base, continueremo a sperimentare le gioie e i dolori dei nove mondi. La differenza è che essi non ci domineranno, e noi non ci definiremo in funzione di essi. Basandoci sulla tendenza vitale della Buddità, i nostri nove mondi si armonizzeranno e agiranno a beneficio nostro e di chi ci circonda


(Pubblicato in origine su ItaliaBlogOltre)

2.4.06

Dio Padre (o Padrino?)

di Roberto Scarpinato

[da MicroMega n°5 del 30/3/2006]

In Italia, tranne poche minoranze, si è cattolici non per scelta ma per destino culturale. Si nasce e si muore senza interrogarsi quasi mai sui temi della religione: si attraversa un'esistenza scandita dal succedersi di riti battesimi, matrimoni, comunioni, funerali dei quali si è quasi smarrito il senso. Riti che in fondo sembrano servire a tenerci compagnia, a non farci sentire soli nella vita.

Ho cominciato a riflettere sulla religione, e in particolare sul cattolicesimo, quando per motivi professionali ho iniziato a frequentare gli assassini ed ho dovuto constatare che tanti di loro erano cattolici ferventi e praticanti. All'inizio si trattava di killer e di capi della cosiddetta mafia militare, per lo più d'estrazione popolare e di modesta cultura. Ma poi venne la stagione dei colletti bianchi, degli appartenenti alla borghesia mafiosa. Persone che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti. Non sparano in prima persona, ma proteggono gli assassini, li aiutano ad evitare le condanne, fanno con loro affari lucrosi, e a volte chiedono agli specialisti della violenza materiale di rimuovere qualche ostacolo che si trova lungo la strada e che non può essere eliminato con metodi incruenti. Il loro motto è: «Dio sa che sono loro che vogliono farsi ammazzare». Ricordo tra i tanti uno dei più rinomati medici di Palermo, che diventò collaboratore e confessò di essere un mafioso. Lui frequentava la Chiesa e raccontava che suo zio, il quale era pure un capomafia, si recava a pregare sulle tombe di coloro che «era stato costretto ad abbattere».

Quando le indagini alzarono il velo anche sulle complicità di uomini politici potentjssimi, dovetti constatare, passando di sorpresa in sorpresa, che taluni di loro, i quali avevano l'abitudine di recarsi a messa ogni mattina, a volte, dopo essersi fatti l'ultimo segno di croce, si affrettavano a partecipare a summit mafiosi nel corso dei quali si discuteva anche di omicidi.


A questo punto sono stato costretto a pormi una domanda: ma come è possibile che carnefici e vittime preghino lo stesso Dio e che ciascuno di loro sia in pace con se stesso? A volte certe risposte sono sotto il nostro sguardo, ma noi siamo ciechi e non abbiamo occhi per vederle. Il mondo, infatti, è pieno di assassini -ben più feroci di quelli da me conosciuti nella mia esperienza palermitana- che credono in Dio, sono cattolici praticanti, sono in pace con se stessi e che muoiono nel proprio letto, convinti di avere bene operato, confermati in tale convinzione da preti e vescovi che mai li hanno criticati in vita, e li hanno benedetti in morte.

Basterà qualche esempio: che dire del dittatore Pinochet, il quale ha sempre dichiarato di essere un buon cattolico, di essere in pace con se stesso e con Dio, e di avere operato per il bene della patria? E che dire dei generali argentini, che trucidarono migliaia di giovani ordinando che fossero scaraventati da aerei in volo nell'oceano? Nel corso dei rari processi ai quali furono sottoposti, alcuni di questi militari per esibire la loro patente di cattolicità raccontarono di avere iniziato a narcotizzare le vittime, prima di scaraventarle nell'oceano, raccogliendo il suggerimento di alcuni prelati i quali avevano fatto loro notare quanto fosse anticristiano ucciderle in stato di veglia in quel modo crudele.

Il problema dei dittatori latinoamericani non può essere minimizzato, ridimensionandolo alla follia morale di alcune persone particolarmente efferate. La storia insegna che le giunte militari argentine, brasiliane e cilene furono il braccio armato di borghesie latinoamericane che non hanno esitato a fare ricorso al genocidio di massa per difendere il sistema di privilegi che veniva messo in pericolo dalle rivendicazioni popolari. Borghesie di milioni di cattolici, praticanti, che ancora oggi considerano Pinochet, Videla e gli altri militari degli eroi della patria. Per questo motivo non è stato possibile processarli prima ed è difficile processarli oggi: sarebbe come processare un'intera parte della società latinoamericana. Dunque, ritornando alle mie ben più modeste frequentazioni con gli assassini, di che cosa mi meravigliavo?

Il quesito iniziale, ovvero come sia possibile che vittime e carnefici preghino lo stesso Dio e siano in pace con se stessi, non riguardava più soltanto Palermo e la realtà mafiosa, ma si dilatava nello spazio e nel tempo diventando universale. Ed era un quesito che almeno per me esigeva una risposta.
La risposta che ho tentato di darmi è questa: in realtà vittime e carnefici non pregano lo stesso Dio, ma un Dio diverso.

Questo miracolo della moltiplicazione di Dio, della coesistenza di più di un Dio nella stessa Chiesa, avviene grazie al fatto che nella Chiesa cattolica il rapporto tra Dio e il fedele è gestito da un mediatore culturale: un sacerdote, un prelato. Ogni strato, ogni segmento della società, ogni tribù sociale esprime dal suo interno il proprio mediatore culturale con Dio, che dunque è portatore della stessa visione della vita dell'ambiente che lo ha espresso. Esiste così un Dio dei potenti, e un Dio degli impotenti. Un Dio dei mafiosi, e un Dio degli antimafiosi. Un Dio dei dittatori, e un Dio degli oppressi. Così in America Latina vi sono prelati che siedono alla stessa mensa di dittatori che hanno commesso genocidi e ne condividono le scelte, e quelli invece, come monsignor Romero, che stanno dalla parte degli oppressi e si sono fatti uccidere per difenderne le ragioni. In Sicilia vi è stato un padre Puglisi e vi sono sacerdoti che invece condividono la cultura mafiosa, che celebrano messa in chiese affollate dal popolo di mafia e dalla borghesia mafiosa. E poi ci sono i sacerdoti della cosiddetta palude, cioè quelli che non stanno né dalla parte della mafia, né dalla parte dell'antimafia, né con la destra, né con la sinistra, né col centro, ma che stanno solo dalla propria parte.

Ciascuno sceglie liberamente la propria Chiesa e il proprio Dio. Molto «democraticamente». Ci troviamo dinanzi ad un politeismo segreto ed occulto. Questo politeismo è segreto per l'occhio del mondo, ma è conosciuto dalle gerarchie ecclesiastiche che, tranne qualche eccezione, evitano accuratamente di scegliere e lasciano che i vari Dio convivano l'uno accanto all'altro.

Questo non scegliere è possibile anche perché, tranne poche eccezioni, la predicazione evangelica ha un taglio generalista che consente a chiunque un approccio non problematico. La predicazione nelle chiese è incentrata sul valore della famiglia, sulla morale sessuale, e su generici appelli alla solidarietà, all'amore per il prossimo, alla cosiddetta etica dell'intenzione, e ad una carità comoda perché si traduce quasi sempre nella cultura dell'elemosina.

Poiché la realtà supera sempre l'immaginazione, ricordo che in una delle indagini di Tangentopoli emerse che un famoso uomo politico, già ministro della Prima Repubblica, in occasione di una rischiosa operazione al cuore aveva fatto voto alla Madonna che nel caso di esito positivo avrebbe donato cento inilioni delle vecchie lire ad una parrocchia. Dopo il felice esito dell'operazione, l'uomo politico convocò un imprenditore imponendo gli di versare alla parrocchia l'importo di cento milioni che gli doveva quale tangente per un appalto pubblico. Nella richiesta per l'autorizzazione a procedere alla Camera, la procura della Repubblica scrisse che appariva grottesco pretendere di fare opere caritatevoli con il denaro altrui (l'episodio è raccontato in dettaglio in G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Editori Riu- niti, Roma 2002, p. 197).
La cultura dell'elemosina non costa nulla, soprattutto se l'elemosina viene fatta con i soldi pubblici. E una cultura che perpetua le catene della schiavitù economica e della sottomissione ai potenti, che lascia le cose come stanno e si traduce in un'acquiescenza all'esistente, in una complicità con l'ingiustizia sociale. La cultura dei diritti e della legalità invece è scomoda, perché costringe a prendere concretamente posizione dinanzi ai potenti della Terra, quelli che occupano i vertici della piramide sociale, e che sono responsabili dell'ingiustizia sociale, della povertà e del degrado metropolitano; un Moloch che costringe milioni di persone a sopravvivere in quartieri dormitorio degradati dove a volte l'economia dell'illegalità (dal contrabbando di tabacchi, alla prostituzione, allo spaccio di stupefacenti) diventa un'economia della sussistenza. Le esistenze di tanti che occupano i gradini più bassi della piramide sociale, si consumano in un ininterrotto via vai da quartieri abbandonati al degrado, discariche sociali a cielo aperto, alle carceri, altre discariche sociali assolutamente inumane ed anticristiane perché i detenuti sono costretti a vivere in celle sovraffollate, destinate a tre o quattro persone e dove si è obbligati a stare anche in dodici, in condizioni di assoluta promiscuità.

Quali sono state, tranne poche eccezioni, le risposte deÌle alte gerarchie ecclesiastiche a tutto ciò? Silenzio dinanzi alla corruzione sistemica, grave peccato contro la solidarietà sociale. Silenzio dinanzi alla borghesia mafiosa e paramafiosa. Silenzio dinanzi all'illegalità di massa di larghi settori delle classi dirigenti che contribuisce a generare a valle l'illegalità di massa delle classi popolari. Generici appelli ad una solidarietà che si traduce in una elemosina praticata con entusiasmo da queste stesse classi dirigenti spesso con il denaro pubblico. Questo segreto ed occulto politeismo della Chiesa cattolica produce a mio avviso un altro fenomeno segreto: il relativismo etico della Chiesa cattolica. L'accusa che in questi tempi viene rivolta alla cultura laica democratica è di alimentare una deriva relativistica dei valori. A fronte di quest'accusa, basterà ricordare che -come tra gli altri ha recentemente osservato Gustavo Zagrebelsky (vedi G. Zagrebelsky, .La Chiesa cattolica è compatibile con la democrazia?», MicroMega, n. 2/20062) -la democrazia si fonda sulla libertà di coscienza di tutti i cittadini.

La libertà di coscienza determina il pluralismo culturale ed il pluralismo dei valori. Il relativismo dei valori quindi non significa nichilismo, disprezzo per i valori, ma al contrario il rispetto per i valori degli altri. Le istituzioni pubbliche sono il luogo nel quale i diversi relativismi si confrontano in modo trasparente. Per decidere quale relativismo deve prevalere su un altro, si adotta il principio della maggioranza. Ma per evitare che il principio della maggioranza si trasformi nella dittatura della maggioranza, e che quindi il relativismo della maggioranza diventi assolutismo, lo Stato democratico di diritto prevede il frazionamento dei poteri, il loro reciproco bilanciamento ed una serie di garanzie per le minoranze.

Il relativismo della Chiesa cattolica invece è occulto ed è tenuto segreto. Ed infatti mentre da un lato i vertici ecclesiastici rivendicano di essere depositari di una verità senza se e senza ma e, proprio sulla base di questa verità assoluta, pretendono a volte di condizionare la legislazione statale, dall'altro lato nelle chiese e nelle parrocchie di tutto il mondo Dio, la verità e l'etica cattolica spesso si relativizzano, quasi balcanizzandosi.
Perché sui temi che riguardano la quotidiana fatica del vivere, il dolore causato dalla prepotenza e dalle ingiustizie sociali, a ciascuno è dato di scegliere il proprio Dio, e quindi la propria etica. Questo relativismo etico produce a mio parere il pericolo di una vera e propria scristianizzazione strisciante, di una diserzione dal cristianesimo. In tante, in troppe chiese, per milioni di fedeli, Dio parla per bocca di preti che frequentano senza problemi i salotti della borghesia corrotta e di quella mafiosa o le stanze del potere dei dittatori, e che riducono Dio a guardiano dei comportamenti da tenersi in camera da letto.

Questo non scegliere, alla base del relativismo di molte gerarchie cattoliche -fatte salve naturalmente alcune eccezioni illuminanti che restano tuttavia episodiche o minoritarie -non sempre è praticabile. A volte la realtà ha costretto le gerarchie cattoliche a scegliere. Ma la lezione della storia dimostra che non sempre questa scelta è stata a favore degli ultimi e degli oppressi, i quali sono stati troppo spesso abbandonati al loro destino. In occasione di un viaggio di lavoro a Buenos Aires, ho incontrato le cosiddette madri coraggio, che da tanti anni protestano sfilando in silenzio dinanzi ai palazzi del potere, per chiedere giustizia per i loro cari. In quel tempo la Spagna aveva chiesto l'estradizione di Pinochet per processarlo ed il Vaticano aveva espresso la propria contrarietà. Una di queste donne inviò ad una rivista una lettera che ho conservato e di cui mi colpì il seguente brano: «Lui [il papa] che avrebbe dovuto alzare una parola quando c'era la violenza, la disperazione, la strage nelle nostre famiglie, lui che avrebbe dovuto generare tutta la reazione internazionale perché sapeva cosa stava accadendo, lui ha taciuto, abbandonandoci nelle mani degli assassini e dei torturatori. Solo noi sudamericani sappiamo bene che cosa è la curia argentina, cilena, sudamericana. Ed ora che dopo tanti tentativi, tante speranze, pensavamo che si cominciasse finalmente ad ottenere qualche risposta internazionale alla nostra storia, al nostro dolore, ancora intatto, lui; finalmente dopo tanto silenzio, parla. Ma parla per sottrarre alla giustizia il capo dei nostri assassini, per dire no ad una condanna per i delitti aberranti, terribili che ci porteremo addosso per tutta la vita».

È vero che in America Latina ha operato anche monsignor Romero, il quale è stato ucciso perché difendeva le ragioni dei campesinos. Ma mi pare che le gerarchie cattoliche non abbiano scelto monsignor Romero, se è vero, come è vero, che tutta la teologia della liberazione è stata messa a tacere e che il processo di beatificazione di monsignor Romero è rimasto bloccato per sette anni.
Ma chi decide queste ed altre scelte? O chi decide le non scelte? Forse il popolo cattolico? Certamente no. E qui veniamo al nodo cruciale del rapporto tra democrazia e Chiesa. E diffusa anche all'interno dello stesso mondo cattolico
l'opinione che, chiusa la breve parentesi conciliare, si è assistito ad una rivincita delle burocrazie e dei vertici vaticani. La storia postconciliare sembra riconnettersi con assoluta continuità alla storia preconciliare. Alcuni parlano del canto del cigno del cattolicesimo medioevale. Sembra di essere ritornati alla restaurazione di una monarchia assoluta, che concentra tutto il potere all'interno della Chiesa in un ristrettissimo vertice. Tra questo vertice e il popolo di base non esiste una vera corrente, una vera osmosi. Vi è una frattura fra questa realtà di base ed i vertici, che sembrano divenire sempre più autoreferenziali.

Mi pare che all'interno della Chiesa cattolica si stia vivendo una vicenda analoga e parallela a quella che travaglia la storia del potere nella laicità. Si assiste ad una ristrutturazione oligarchica e verticistica del potere e ad una crescente gestione mediatica delle masse. Il cattolicesimo sembra sempre più ridursi ad immagine mediatica, a miracolismo, a sceneggiati televisivi sulla vita dei santi, a vari minuti di Vaticano ogni giorno in tv: dovrebbe far riflettere che i media di regime, che hanno silenziato chiunque si sia rivelato scomodo per il potere, che hanno censurato l'informazione sui fatti, che ignorano completamente le esperienze di base del popolo cattolico, facciano invece da megafono ai vertici vaticani. Come è stato osservato, il vero nemico del cristianesimo non è stato Diocleziano, ma Costantino. Gesù è stato ucciso democraticamente dal potere politico e religioso. Il processo a Gesù è emblematico: il popolo, gestito demagogicamente dal potere, scelse Barabba. Gesù viene prima ucciso fisicamente dal potere ecclesiastico e politico, e poi viene ucciso culturalmente dal costantinismo che lo fa diventare instrumentum regni.

E allora il problema, ieri come oggi, resta quello di spezzare il rapporto perverso tra fede e potere. Spezzare questo rapporto significa restituire la voce di Dio e di Cristo agli uomini, perché nel corso della storia lo spazio tra l'uomo e Dio è stato troppo a lungo sequestrato dal potere. Ritengo che ciò sia compito soprattutto dei credenti e che per assolvere questo compito sia sufficiente essere coerenti con l'insegnamento di Cristo, recuperare l'insegnamento antipotere di Cristo.

A me pare che uno dei nuclei del messaggio di Gesù sia proprio la sfida ai potenti, affinché prendano atto della loro complicità nella sofferenza degli uomini. Solo i poveri sono innocenti, disse, solo i miserabili sonò senza peccato, solo chi non ha pane è senza colpa. E a proposito del dovere di scegliere, mi pare che l'etica laica e l'eticacristiana coincidano nel denunciare l'immoralità del non scegliere. Sartre scrisse: «L'etica consiste nello scegliere, noi siamo le nostre scelte». E Gesù nel Vangelo (Luca, 12, 51) dice: «Voi pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma piuttosto divisione».

Quale divisione? La divisione di chi sceglie. E sceglie di stare dalla parte degli ultimi e degli oppressi. Una scelta che si traduce nella carità attiva per la cultura dei diritti, per la liberazione dalle catene del bisogno, una scelta che condannò Gesù a morte e che sempre nel corso della storia ha condannato a morte chi ha osato schierarsi contro il potere. La lezione di Cristo dunque a me sembra esattamente opposta a quella curiale della non scelta o della scelta a favore del potere. A volte, quando a Palermo mi accade di partecipare a cerimonie funebri per commemorare le vittime di tanti omicidi mafiosi, mi guardo intorno e chiedo a me stesso: chissà quanti assassini, quanti sepolcri imbiancati ci sono qui, in questa chiesa, accanto a me, in pace con sé stessi e con Dio?

In quei momenti chiudo gli occhi; e mi piace immaginare che un giorno qualcuno scriva sulle facciate di tutte le chiese di Palermo la stessa frase che un grande vescovo brasiliano aveva dipinto sulla facciata della sua cattedrale: «Il mondo si divide tra oppressori e oppressi. Tu, cristiano, che stai per entrare, da che parte stai?».

(Già Pubblicato su ItaliaBlogOltre)

Elogio Dell'Ateismo

di Carlo Augusto Viano

[da Micromega n°5 del 30/3/2006]

Parlate di ateismo ed evocherete pudibonde riserve: non si sa se Dio esista oppure no, non si può dimostrare che esista ma neppure che non esista, ciò che conosciamo è poco, tutto intorno a noi è mistero, e nel mistero ci può stare pure il Padreterno. I filosofi chiamano una cosa del genere agnosticismo e sulla timidezza degli agnostici ha sempre fatto leva l'apologetica religiosa, che sbandiera l'indimostrabilità della non esistenza di Dio, approfitta del senso del mistero che le persone sensibili e consapevoli dei limiti della conoscenza umana dovrebbero coltivare e si fa forte del fatto che le credenze religiose sono più originarie rispetto a qualsiasi critica della religione.

In realtà le cosiddette prove dell'esistenza di Dio sono dimostrazioni fittizie, che si avvalgono di premesse arbitrarie, dalle quali ricavano conclusioni in modo arbitrario: pertanto l'esistenza di Dio non è oggetto di una proposizione indecidibile, perché le proposizioni indecidibili debbono essere formate entro teorie che siano ben altra cosa rispetto alle dottrine teologiche disponibili. Né è significativo il fatto che le credenze religiose precedano le contestazioni ateistiche, perché in generale le credenze che il progresso dell'esperienza e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche hanno dimostrato infondate precedono le critiche destinate a demolirle. Inoltre le credenze religiose effettive sono molto varie ed è impossibile ricondurle a un corpo omogeneo, attribuibile al genere umano, da recare come prova del loro carattere originario, se non addirittura innato. Né si ricava qualcosa dalla considerazione dei limiti delle conoscenze effettive, da quelle di esperienza più o meno dirette a quelle che esigono costruzioni teoriche più o meno elaborate.

I limiti esistono, ma ciò non autorizza ad ammettere tipi di conoscenza diversi da quelli dei quali si riconoscono i limiti. Quando si parla di «misteri» per alludere alle molte cose che non si sanno, ci si riferisce a domande senza risposta perché le risposte non sono per il momento disponibili, o perché esse segnano i limiti funzionali del sistema di conoscenza impiegato o perché le domande sono improprie. I misteri quotidiani riguardano eventi particolari sui quali non si dispone di testimonianze o prove adeguate: il mistero della morte del giornalista Pecorelli o del deputato Lima, per citare due dei tanti «misteri d'Italia», potrebbero essere svelati se qualche personaggio influente parlasse.

I misteri in senso proprio sono quelli contenuti nei libri sacri e nelle tradizioni religiose, cioè le cose incomprensibili e le imposture che vi si trovano. Gli uomini di fede ovviamente li prendono sul serio, mentre i non credenti con il senso del mistero esitano a chiamare quelle cose con il loro nome e sospendono il giudizio, dimenticando che la religione è più una faccenda di credenze, riti e testi e che ciò sminuisce molto l'importanza di dimostrazioni e dottrine teologiche. Che l'asserzione dell'esistenza di Dio non sia la cosa più importante per le religioni è provato dal fatto che esistono religioni importanti considerate atee.
Nelle religioni bibliche la discussione sull'ateismo è entrata con il platonismo, perché è stato Platone a formulare una teoria esplicita dell'ateismo e a classificarne le forme, so$tenendo che esso consiste nella negazione esplicita dell'esistenza degli dei, nel ritenere che essi possano essere indotti da offerte o preghiere a concedere favori, oppure nel negare che essi governino il mondo e si prendano cura degli esseri umani. Platone cercava di inventare lui una religione filosofica, che era un travisamento delle religioni reali, nelle quali le asserzioni teoriche sull'esistenza delle divinità non sono molto importanti, mentre contano pratiche, tabù, paura degli dei e fiducia in loro.

Il platonismo si è proposto di combattere l'ateismo e ha inserito nelle religioni bibliche una vera e propria teologia, che i non credenti hanno preso sul serio, supponendo che fosse possibile dar vita a una religione razionale o naturale, oppure ammettendo che l'oggetto della teologia potesse non essere conoscibile con i mezzi ordinari. Tutto ciò ha condotto a sminuire l'importanza di credenze e cerimonie e a presumere che su poche proposizioni sulla divinità si potesse trovare un accordo tra seguaci di fedi diverse e anche tra membri di società religiose e chi non apparteneva a nessuna di esse.

Così si è fatta strada l'idea che sia impossibile essere veramente e completamente atei, perché anche chi respinge credenze e pratiche particolari ammette qualcosa di simile all'idea di Dio, invariante rispetto a tutte le forme religiose storiche. In realtà in società sospettose, come quelle antiche, o repressive, come quelle dominate dalle religioni bibliche, riconoscere l'esistenza di Dio, magari in tennini generali, poteva essere un modo per dissimulare un sostanziale ateismo ed evitare persecuzioni, ma chi muoveva dall'idea che un autentico ateismo fosse impossibile ha respinto questa interpretazione e ha considerato quella di ateismo un' accusa usata nelle polemiche filosofiche per screditare gli avversari. Molti storici hanno adottato questa interpretazione, colpendo le posizioni ateistiche con una sorta di censura culturale e facendo passare per devoti personaggi che non lo erano per niente.

Già l'atomismo antico aveva dato un quadro della natura in cui era difficile inserire l'opera degli dei, e lo sviluppo della scienza moderna ha reso più radicale l'opposizione tra l'interpretazione scientifica della realtà e la teologia. Qualche volta la natura stessa è stata divinizzata, qualche altra si è ritenuto che tutta la realtà fosse un sistema spiegabile con leggi puramente scientifiche. Non c'è dubbio che i successi della scienza moderna nella spiegazione dell'universo abbiano indebolito le fedi religiose, ma questo processo si è verificato nella tradizione occidentale, dominata dalla filosofia classica, in cui la questione teorica dell'ateismo ha avuto una posizione centrale. La classificazione platonica dell'ateismo permetteva di trovare sempre qualche clausola di salvataggio. In fondo perfino Epicuro, che negava la provvidenza divina e che perciò, secondo Platone, doveva essere considerato ateo, non negava l'esistenza degli dei, e dunque si poteva ritenere che proprio ateo non fosse.

Se non si prendono troppo sul serio le teologie, emerge un altro aspetto dell'ateismo. Già i filosofi scolastici lo sapevano e si domandavano se la legge morale (il decalogo,per intendersi) esigesse il riconoscimento dell'esistenza di Dio o se esso fosse valido anche senza essere interpretato come un comando divino. Si dovrebbero cioè praticare i comandamenti o tutti ,i comandamenti anche se Dio non ci fosse? E chiaro che in questo caso alcuni di essi, per esempio quelli che impongono di riconoscere la sua esistenza o la sua unicità o di non bestemmiarlo o di osservare i riti, non avrebbero senso, ma altri potrebbero restare validi.

Se si affronta la questione dell'ateismo da questo punto di vista, diventa più difficile eludere la sfida che esso presenta, assumendo una posizione moderata e agnostica, perché entrano in gioco i modi di vita delle persone. L'apologetica cattolica ha introdotto il concetto di «ateismo pratico», per indicare forme di vita che escludono il riferimento alla divinità, anche se non accompagnate dalla negazione esplicita della sua esistenza. Ci sarebbero perciò condotte che prescindono dal riferimento alla divinità e che sono moralmente scorrette. Per sostenere una cosa del genere bisogna assumere che esiste un solo tipo di condotta corretto e moralmente accettabile e che questo tipo di condotta esiga un riferimento alla divinità. Ne deriva la condanna del relativismo etico, cioè la negazione della possibilità che esistano codici di comportamento legittimi disparati.

Curiosamente coloro che vanno a caccia dell'ateismo pratico hanno qualcosa in comune con coloro che negano l'efficacia morale della credenza nella divinità, ma ritengono che esista un unico codice morale: il punto di dissidio è costituito dalla connessione tra quel codice e l'idea di Dio. Per gli assolutisti etici agnostici il codice morale unico sussisterebbe anche se Dio non esistesse e anzi il riferimento alla divinità potrebbe turbare la purezza delle intenzioni morali, mentre per gli assolutisti etici religiosi l'esistenza di Dio è una premessa necessaria di quel codice.

Di fronte all'elaborazione teologica delle religioni bibliche ci si è dunque rifugiati dietro due atteggiamenti ugualmente timidi, suggeriti dal pudore teorico, che ha generato l'agnosticismo, e dalla ricerca di accordo etico, che ha suggerito l'assolutismo etico, per il quale esiste un'unica legge morale, valida indipendentemente dall'esistenza di Dio. Questi due atteggiamenti hanno impedito di rendersi conto che la negazione della divinità permette di liberare i comportamenti umani da vincoli e pregiudizi.

Epicuro poteva anche asserire che gli dei esistono ma, sostenendo che non si occupano degli uomini, intendeva liberare l'umanità dalla paura degli dei e proporre una forma di moralità diversa da quella tradizionale e consistente nella ricerca assennata del piacere, fondata sulla previsione del futuro. Nelle religioni storiche la credenza che esista un Dio supremo non ha affatto condotto al riconoscimento di un codice morale universale unico, ma tutt'al più alla pretesa di imporre regole di vita particolari come se fossero dettami di una legge universale. Eppure il riferimento alla legge universale ha contaminato l'assolutismo etico agnostico, che ha coltivato il miraggio di un codice universale di comportamento valido anche se Dio non esistesse e capace di soddisfare credenti e non credenti.

L'idea che esista una legge morale unica è figlia del presupposto del governo divino del mondo e una filosofia atea deve avere il coraggio di respingere non soltanto l'esistenza di Dio, ma anche l'idea che il mondo sia un sistema suscettibile di essere governato da una divinità. Le leggi sono ordinamenti positivi che spesso vengono intesi come comandi, eventualmente sanzionati. Sebbene questo modello si applichi soltanto parzialmente perfino alle leggi positive codificate e sia meno convincente nel caso degli ordinamenti con una forte base giurisprudenziale, a partire di qui si è foggiata l'idea di una legge morale universale intesa come un insieme di comandi. Caduta l'idea di un dio re, che emana le leggi, la legge morale universale è stata presentata come una specie di generalizzazione delle leggi positive: se non era promulgata dal reggitore divino del mondo, la legge morale non scritta era in realtà inscritta nella natura umana e magari rilevabile con la ragione.

Una volta riconosciuto che l'interpretazione delle leggi positive come comandi appare per molti versi inadeguata, risulta difficile applicare quel modello agli impegni morali. L'ateismo, sgombrando il campo dall'idea di un legislatore sovrano universale, indebolisce anche l'idea di una legge universale non scritta e fa del dominio di solito assegnato all'etica un campo in cui si prendono impegni, si formano aspettative, si lasciano trasparire linee di condotta, un campo nel quale si esercitano pienamente previsioni, adattamenti, scommesse, tutte cose contro le quali i moralisti teologi o eredi della teologia hanno innalzato muri di diffidenza. Ciò non toglie che gli impegni morali possano anche generare stabilità e prevedibilità ai comportamenti, ma proprio perché sono impegni e non sono leggi positive, che danno alle condotte un'uniformità grossolana e che consentono adattamenti soltanto attraverso elusioni e mutamenti spesso non trasparenti.

La vecchia convinzione di atei alla Plutarco e alla Bayle, che una società di atei può funzionare meglio di una società di devoti, non è stata sviluppata abbastanza, ma sembra piuttosto verosimile che una società libera dal timore divino e senza la sorveglianza di un sovrano divino non soltanto sia più varia e piacevole, ma anche meno fanatica, più ospitale e più disposta a intrecciare vite diverse, lasciando che si adattino le une alle altre.

(Già Pubblicato su ItaliaBlogOltre)